«Atteso che già i medici, i cirugici, i barberi, i beccamorti, i carrettieri, i soldati di guardia e in una parola tutti coloro che erano sotto il nome de brutti, andavano co gran confusione senza guardie, già tutte morte, e senza segnal che gli doveva distinguer da gli altri, eror gravissimo, e assai da me cridato, perché [ ] dalla confusione de nostri in breve la città si riempì di tanta infezione e morti che era impossibile portarne, ogni giorno, la metà ai carneri fuor delle muraglie, dove anco ne lasciavano la maggior parte insepolti, per la necessità dattender a nettare la città. Nella qual il giorno che attendevano a sepoltura, restando nelle strade tanto piene, che non si vedeva sopra le porte delle case, che cadaveri, e avanti molte desse amontonati due, tre e quattro insieme, di modo che per levarsi il fetor, che gli ammorbava, già i beccamorti, e carrettieri (ancor che pagati dalla città [ ] si pagavano anco da particolari, comallincanto, essendo ancora essi per la morte di molti dei loro compagni ridotti a poco numero, se ben per haverne molti e supplir a tanta necessità si fossero più volte votate le prigioni de forfanti [ ]. Dico, che si pagavano come allincanto, servendo a chi più gliene dava di modo, che spesso lasciavano i cadaveri più corrotti e fetenti di molti giorni a danno pubblico, per quello sporco guadagno».Il brano estrapolato fa parte di un prezioso manoscritto inedito, ritrovato da Massimo Centini e conosciuto come Il Trattato della peste et pestifero contagio di Torino di Giò Francesco Fiocchetto, primo medico del Serenissimo Duca di Savoia et Principe di Piemonte et suo Protomedico Generale.Un testo che ci permette ad oggi di leggere come la città affrontò lemergenza della Peste del 1630, di manzoniana memoria, ma che non riguardò solo quel ramo del lago di Como bensì il Nord Italia e buona parte dellEuropa Centrale.Siamo allepoca della guerra dei Trentanni e si ritiene, secondo i sospetti dellepoca, che fossero stati soldati dellesercito francese (opposto ai Savoia che avevano come alleati i tedeschi) a far penetrare il morbo in città. I primi casi sembra fossero già stati registrati nel giugno del 1629 quando cominciarono a fluire a Torino torbe di poveri e mendicanti in fuga dalla Valle di Susa, in cerca di sicurezza e protezione, trovando posto negli ospedali (quello di Po e quello di San Lazzaro, presso Porta Palazzo, furono presto stracolmi) e aumentando esponenzialmente le possibilità di contagio. Inoltre, nonostante i primi casi segnalati, le merci e i commercianti provenienti da fuori continuavano ad entrare in città.Nellestate del 1629 il Comune iniziò a prendere in mano la situazione, ordinando le prime quarantene, intensificando i controlli, donando oboli ai bisognosi e trasferendo i malati fuori dalle mura. A questa stretta seguirono però le prime trasgressioni: in una casa vicina alla chiesa di San Dalmazzo, per esempio, venne scoperto un ragazzo appestato; nonostante la presenza di un picchetto di guardia alla porta, la sorella riuscì a evadere comunque dalla quarantena, portando con sé una serva (già malata). E con il passare del tempo i casi di contagio aumentarono.Si arrivò così alla primavera successiva, quella del 1630, quando la situazione, già grave, diventò catastrofica. A maggio la Corte abbandonò la città, seguita dai più abbienti e da quanti si spostarono nelle case in collina o in provincia. Un esodo di rappresentanti delle istituzioni e di «classe dirigente» che, come più volte ricorda Fiochetto nel suo saggio, creò un vuoto al vertice della città, rendendone difficile la gestione. Fu il momento in cui emerse la figura di Giovanni Francesco Bellezia, il «sindaco della peste», che restò al suo posto coordinandosi con quei pochi consiglieri rimasti e ritagliandosi così un posto nella storia torinese. Quando fu costretto a letto dalla malattia, Bellezia continuò a convocare un ristretto consiglio, con cui conversava dalla camera da letto. Anche Fiochetto quindi non abbandonò Torino ma, anzi, si diede da fare per cercare di applicare al meglio le prescrizioni sanitarie previste.La peste si abbatté sullintera popolazione: solo una dozzina di case in città fu risparmiata, ricorda Fiochetto, mentre degli undicimila uomini che rimasero a Torino, tremila trovarono la morte. Nel giro di pochi giorni intere famiglie furono spazzate vie mentre la confusione iniziò a pervadere la città e le regole a essere dimenticate. Nelle strade regnavano caos e corruzione.Questo stato di confusione dilagante rese impossibile ogni sorta di controllo. Nonostante i molti problemi che fu chiamata ad affrontare, la città riuscì a organizzare sei lazzareti in cui le persone erano divise tra sospetti e malati, tra (ovviamente) poveri e non poveri.In via Sospello, zona allepoca fuori città, si notano ancora oggi i resti di una cascina a ciò destinata.Qui come in città la corruzione era allordine del giorno: cerano casi in cui il personale sanitario, benché retribuito dalla municipalità, non si presentava a svolgere il proprio mestiere, casi di furti di cibo riservato ai malati, appropriazioni indebite e così via.Con larrivo dellautunno, il comune decise di spostare i malati dentro le mura, al palazzo dei Carelli nellisola di Santa Francesca (oggi delimitato da via Alfieri, via Arsenale, via Lascaris e via San Francesco dAssisi): milleduecento persone, sempre stando al Fiochetto, vi furono richiuse. Il palazzo fu scelto per due ragioni determinanti: in primo luogo perché facile da controllare per i picchetti di guardia ai cancelli, in secondo luogo perché esposto ai quattro venti, favorendo così lareazione delle stanze. Una tra le prime raccomandazioni che i medici davano ai malati, infatti, era di areare e profumare il più possibile le stanze in cui si viveva.Si commissionarono in quegli anni anche molte opere votive.Una di queste, normalmente custodita nella chiesa di San Francesco a Torino (nellomonima via) è attualmente esposta al Museo Diocesano del nostro Duomo.Difficile immaginare qualcosa di più Noir, nel soggetto e nel titolo, di: Trionfo della MorteCredits: la nostra Guida Clarita